F. Del Tredici: Milano del Quattrocento

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Titel
Comunità, nobili e gentiluomini nel contado di Milano del Quattrocento.


Autor(en)
Del Tredici, Federico
Erschienen
Milano 2013: Unicopli
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von
Elisabetta Canobbio

Esito dello spoglio della densissima documentazione prodotta da notai rurali, integrato con sostanziosi apporti del Carteggio sforzesco, il saggio di Federico Del Tredici muove dall’intento di misurare il rilievo assunto nel corso del Quattrocento dalla forma comunitaria quale principio organizzativo del contado milanese, attraverso l’analisi degli assetti sociali, istituzionali ed economici delle terre di pianura a nord-ovest della capitale – una decina di pievi situate tra la fascia prealpina e la più fertile bassa pianura milanese, inquadrate sotto la giurisdizione del capitano del Seprio e variamente connotate dal fitto e longevo radicamento di rami cadetti della dinastia viscontea.

Il volume prende avvio da un’ampia panoramica delle strutture del popolamento, imperniato su borghi di dimensioni non eclatanti (nel 1466 Gallarate, sede del capitanato e tra i più popolosi del contado, contava verosimilmente 1300-1400 abitanti) e su numerosi villaggi di ancora minor peso demico, istituzionale ed economico. Furono soprattutto questi centri di taglia più modesta a beneficiare del forte incremento demografico che nel corso del secolo interessò la regione, mentre non pochi comuni andavano sorgendo presso cassine, in connessione alla corresponsabilità degli abitanti nella gestione di ambiti nevralgici per la collettività, quali il mantenimento della chiesa del villaggio e pratiche di carità post mortem.

Appunto l’analisi dei testamenti superstiti evidenzia il generalizzato riconoscimento dell’identità comunitaria, poiché un po’ ovunque nel Seprio legati caritativi e suffragi furono indirizzati alla collettività – incarnata dal “comune” o dai “poveri del comune” –, si trattasse del luogo di residenza del testatore o, più raramente, di origine. Risultano invece assenti dall’immagine della società locale delineata dalle fonti quei segmenti infra o extra comunali che altrove, come in Valsesia, marcavano fortemente gli assetti locali: non le cascine, che i documenti qualificano come spazi fiscalmente privilegiati più che come soggetti collettivi, né quei gruppi di massari dei Visconti che si configuravano come una somma di individualità più che una universitas, anche laddove avevano guadagnato una certa visibilità entro gli organismi del governo comunitario. Privi di specifica rilevanza istituzionale risultano anche i legami parentali di cui pure è attestato l’irrobustimento, particolarmente nelle pievi settentrionali dell’area; allo stesso modo, il modesto profilo economico e sociale dei loci del Seprio giustifica la scarsa percezione e la limitata importanza di corpi assembleari ristretti, a fronte dell’esteso coinvolgimento dei vicini nella vita politica ed istituzionale dei villaggi.

Tutto sommato fragile risulta altresì l’identità autonoma riconosciuta alle comunità di pieve, oggetto della terza parte del saggio. Almeno dal Trecento quadro di coordinamento dell’azione congiunta delle comunità – prevalentemente nell’ambito fiscale, più che in quello giurisdizionale – e insieme ai borghi elemento costitutivo delle circoscrizioni vicariali e capitaneali, nella documentazione quattrocentesca la pieve non risalta quale soggetto unitario ma piuttosto come insieme di loci, e quindi anche per questo interlocutore di scarso appeal nei flussi di comunicazione tra la capitale e il contado. Le biografie di quanti assunsero la carica di anziano configurano inoltre questi organismi come spazio di affermazione politica praticato esclusivamente da esponenti della nobiltà rurale o, meno frequentemente, da cives Mediolanenses.

Il persistente radicamento della identità comunitaria è riscontrabile anche presso i borghi, insediamenti connotati da una maggior complessità istituzionale rispetto ai loci (indicativa in tal senso l’attestazione di consigli ristretti), da una certa articolazione territoriale (in contrade e in plurime circoscrizioni parrocchiali) e da una più evidente segmentazione sociale (per la presenza di parentele talora robuste, in grado di trasporre tale vitalità anzitutto nella cogestione dello spazio sacro). Ciononostante, forti – anzi, destinati a consolidarsi nei primi decenni del Cinquecento – si mantennero il controllo esercitato dall’universitas dei vicini sulle risorse collettive e, più in generale, il coinvolgimento dei membri del comune nella vita dello stesso – elementi puntualmente riecheggiati dalla pratica testamentaria borghigiana, che oltre ai diversi segmenti della società locale valorizzava la comunità. A tale vitalità fa riscontro la chiusura delle élites borghigiane (esemplificata dalla prosopografia dei consiglieri di Gallarate), di fatto incapaci di assurgere a protagonisti del dialogo tra centro e contado.

Nonostante le fitte relazioni con la società del luogo, sostanzialmente esclusi dalla dimensione comunitaria rimanevano gli esponenti della nobiltà rurale, cui è dedicata la quinta parte del volume. Se la dimensione territoriale costituiva uno degli elementi di frattura all’interno delle parentele sepriesi (per cui, ad esempio, nelle riunioni nobiliari la teoria dei convenuti era scandita dal riferimento ai luoghi di insediamento anziché alla parentela), soprattutto nelle più ricche pievi meridionali e anche nei centri dove la presenza nobiliare assumeva forme più robuste, opportunità di valorizzazione dell’identità nobiliare e spazi di affermazione politica non erano ravvisati entro l’orizzonte comunitario ma presso la vicina capitale del ducato, nonché nell’accesso alle clientele dei rami cadetti dei Visconti. Per questi ultimi, invece, le relazioni strette con la piccola nobiltà del capitanato costituivano un modo essenziale per consolidare la presa sul territorio. Come minutamente illustrato nell’ultima parte del saggio, era, quella dei Visconti nel Seprio, una presenza quantitativamente consistente e declinata in modo molto vario, sostanziata di una fitta teoria di castelli, di diritti giurisdizionali più o meno legittimi ma di fatto riconosciuti, di forme di tutela meno robuste (ben esemplificate dal “protettorato” esercitato da Filippo Maria di Fontaneto sulla pieve di Olgiate o dalle vicende di Somma, Mezzana e Arsago, faticosamente recuperate da Francesco Sforza), di rapporti di protezione innestati sul possesso fondiario, di relazioni clientelari basate su una consuetudine di servizio. Tuttavia, anche nelle terre dei Visconti è rilevabile il peso dei corpi comunitari: non solo, infatti, qui si affermarono nuovi comuni, ma il rapporto tra homines e domini continuò a declinarsi entro quadri d’ordine territoriale e comunitario, come documentato per la comunità di Golasecca, che nel 1481 riconobbe la giurisdizione viscontea purché communiter et non divisim o, all’inverso, a Somma, dove la segmentazione territoriale in contrade attestata dai primi anni del Quattrocento fu la premessa della divixio hominum tra Guido e Francesco Visconti formalizzata nel 1473. Tuttavia, come riscontrato nella dimensione pievana, neppure ove “rami e ramoscelli” di casa Visconti erano più radicati il perimetro comunitario funse da incubatore di un’élite di estrazione vicinale o borghigiana che si facesse interprete delle relazioni con le sedi extra locali della decisione politica.

Quest’ultimo elemento differenzia profondamente il Seprio dalle regioni alpine del ducato, i cui assetti istituzionali, sociali e materiali sono stati valorizzati nell’ultimo decennio dalle ricerche di Massimo Della Misericordia, esplicitamente indicato da Del Tredici tra gli interlocutori delle sue riflessioni. Rispetto a quella valtellinese, che trovava nelle floride comunità borghigiane uno spazio di affermazione politica rapidamente traspostasi nel monopolio della mediazione con i quadri di governo sovralocali, la nobiltà rurale del Seprio continuava in effetti a cercare nella vicina capitale risorse materiali e simboliche, parenti e patroni, nonché i fondamenti della propria identità cetuale, pur coltivando oculatamente le radici che affondavano in profondità nel capitanato. Significative in tal senso sono le pagine dedicate alle positive rica dute che i legami parentali nobiliari mantenevano in occasioni di conflitto, nell’ambito di iniziative produttive e commerciali, nel controllo sulle istituzioni ecclesiastiche locali. Questi elementi, destinati ad articolare ulteriormente il dibattito storiografico sull’essere nobiles Mediolanenses tra medioevo ed età moderna, trovano invece larga corrispondenza con la porzione di contado immediatamente a settentrione della capitale, dal punto di vista insediativo e demico la più consistente del ducato e, allo stesso modo, connotata dalla limitata rilevanza dei borghi e dalla forte presenza nobiliare. L’individuazione delle discontinuità e delle analogie con altre aree del dominio, puntualizzazioni e raccordi con snodi importanti del dibattito storiografico sulla società lombarda tardomedievale e sui protagonisti dello stato regionale “plurale”, puntuali affondi negli assetti patrimoniali e famigliari dell’area presa in considerazione (in relazione, ad esempio, al regime dotale e a processi di frammentazione / irrobustimento delle parentele), importanti indicazioni metodologiche (anzitutto nell’ambito delle forme e delle formule della scrittura notarile) rendono dunque il volume di Del Tredici un contributo assai significativo nel panorama degli studi sui contadi, così come di grande ricchezza e suggestione è l’apporto di queste pagine alla minuta conoscenza di luoghi, stirpi, “uomini comuni” del Milanese.

Zitierweise:
Elisabetta Canobbio: Recensione di: Federico Del Tredici: Comunità, nobili e gentiluomini nel contado di Milano del Quattrocento, Milano, Unicopli, 2013. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, Vol. 156, pagine 122-124.

Redaktion
Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, Vol. 156, pagine 122-124.

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